Intervista di Alessia Mocci a Marco Incardona ed al suo Domande al silenzio

Il ritmo delle nostre vite è divenuto talmente frenetico, talmente dinamico che ha finito per travolgere molte delle forme con cui si era veicolata la nostra civiltà nella modernità. L’accelerazione economica e tecnologica degli ultimi trenta anni, ha reso rapidamente desueti gli strumenti politici e culturali con cui pensavamo di governare le nostre esistenze.

Parole cariche di comprensione verso ciò che accade oggi nel mondo e nella vita di ogni essere umano. In questo modo, Marco Incardona, racconta la genesi del suo romanzo.

“Domande al silenzio”, edito nel novembre del 2011 dalla casa editrice “La Nuova Rosa Editrice” per la collana editoriale “Narrativa”, è il primo e sofferto romanzo dell’autore, una gestazione letteraria lunga ben due anni per riuscire ad esprimere tutto il “magma” che portava dentro. Un libro esperimento che porta il lettore acuto a riflettere sulla nostra società attraverso un protagonista davvero particolare. “Domande al silenzio” è una lettura ardua, imponente per le tematiche presenti e per la tipologia di narratio.

Marco è stato molto disponibile ed esaustivo nel rispondere ad alcune domande sulla sua vita e sulla sua pubblicazione. Buona lettura!

A.M.: Quando è nata la passione per la scrittura?

Marco Incardona: Non so dire con esattezza quando sia nata in me la passione per la scrittura e a dire il vero non so nemmeno se la potrei chiamare una passione. Certo che solo l’amore e la passione rendono possibile il miracolo della scrittura creativa, questo non posso negarlo. Ma la parola passione lascia spesso presupporre un atto creativo positivo, un furor quasi inarrestabile verso l’affabulazione. Nel mio caso, per diventare tutto questo, ammesso che lo sia diventato alla fine, l’urgenza verso la parola ha dovuto superare molte barriere e molti ostacoli di ordine innanzitutto intimo. Avevo ed ho un rispetto quasi sacrale verso la letteratura ed i suoi maestri e non mi sono mai ritenuto all’altezza di cominciare un compito così difficile come quello di scrivere un romanzo. Si dice che Brahms per rispetto di Beethoven e delle sue 9 sinfonie abbia distrutto molte delle sue non ritenendosi degno di un tale maestro e che Bruckner per non superare il limite sacrale di 9 abbia retrocesso una delle sue sinfonie al numero 0. Nel mio piccolo anche io ho spesso bloccato ed umiliato il mio anelito verso la narrazione. Ma la vita si impone sempre e comunque e la scrittura si è rivelata alla fine l’unica forma per dare equilibrio ad una mente che, travolta da un continuo vortice di pensieri, stava cercando un modo per esprimersi. Nata in maniera quasi brumosa, quasi maledetta questa urgenza ha però ben presto preso le sue rivincite ed eccomi qua a parlare del mio romanzo “Domande al silenzio”.

A.M.: Nato nel Sud Italia ti sei trasferito presto in Toscana. Come vivi questa tua dualità?

Marco Incardona: La vivo in un modo allo stesso tempo naturale e complesso. Naturale perché ho dovuto abituarmi da subito a questa identità molteplice. Complesso perché solo il tempo, l’esperienza e la maturazione restituiscono in modo prospettico le peculiarità di un’identità che ha dovuto “barcamenarsi” tra più culture e farlo in un modo il più possibile naturale. I miei genitori sono meridionali entrambi, ma di due regioni ricchissime e diversissime come la Campania e la Sicilia e questo ha reso le cose ancora più complesse. In più c’è da dire che, entrambi emigrati, essi non hanno reagito allo stesso modo al “dramma” dello sradicamento. Mia mamma ha probabilmente rimosso e sfaccettato la sua origine, diluendola in un vago meridionalismo, mio padre invece ha creato un dualismo quasi ossessivo con la sua Sicilia, lasciando aperta in tutti noi l’ingombrante presenza di quest’isola favolosa. Un rapporto con il Meridione diverso in loro che si è riverberato in me in una fascinazione continua, quasi ancestrale, quasi commovente. Vi è poi il mio essere toscano, l’essere cresciuto nel pisano ed il vivere da anni a Firenze, città a cui sono legatissimo, a complicare ulteriormente il quadro. Alla fine l’unico modo che ho trovato per trovare pace in questa impossibilità ad avere delle radici stabili è stata quella di aprirmi ulteriormente ad altre culture. Per questo solo guardando al Sud mi sento toscano e viceversa. Mi sento profondamente italiano ed europeo e provo sempre ad essere curioso ed a osservare tutte le culture con estremo interesse, questo è il lascito più bello di questa mia dualità.

A.M.: Come nasce l’idea di pubblicare “Domande al silenzio”?

Marco Incardona: Quando nel settembre del 2006 ho cominciato a scrivere il romanzo non credevo di arrivare alla fine, tanto meno immaginavo un giorno che sarei riuscito a pubblicarlo. La scrittura da atto quasi temerario, visto anche gli ostacoli mentali di cui parlavo prima, si è alla fine rivelata una sfida con me stesso, un modo per vagliare di che tempra fossi fatto. Mi sono auto imposto una tensione forte tra uno stile di scrittura il più possibile eclettico ed un’architettura della trama complessa e sperimentale. In corso d’opera ho scoperto quanto fosse bello scrivere un romanzo, quanto fosse faticoso, ma anche quale libertà di espressione mi stesse concedendo. Non solo la storia e la trama, ma anche il mio modo di pensare, i miei abissi più profondi sono divenuti parte della mia scrittura in un modo quasi inestricabile. Il romanzo concede una duttilità concettuale unica ed eccezionale, che ho capito essere per me molto congeniale. Padrone incontrastato di tutto il romanzo fino a darne il titolo è dunque il silenzio ed in una duplice accezione. Il silenzio, il suo ruolo, il suo fragore diviene progressivamente l’elemento cardine che prende la scena fino ad imporsi sui personaggi in un modo imprevedibile. Ma non voglio essere criptico, perché quello che voglio dire è facilmente comprensibile. Il ritmo delle nostre vite è divenuto talmente frenetico, talmente dinamico che ha finito per travolgere molte delle forme con cui si era veicolata la nostra civiltà nella modernità. L’accelerazione economica e tecnologica degli ultimi trenta anni, ha reso rapidamente desueti gli strumenti politici e culturali con cui pensavamo di governare le nostre esistenze. Al loro posto si è fatto spazio, quella che io definisco una morsa mortale fatta di edonismo individuale, di postmodernismo culturale e di falsa condanna delle ideologie in politica, che ha lasciato nessuno spazio alla libertà di pensare. In questa morsa il silenzio è divenuta quasi un’istintiva forma di salvaguardia con cui gli esseri umani provano a proteggere quello che hanno rinunciato a capire e spiegare. Silenzio intimo, silenzio di mancati dialoghi, silenzio di mancate domande, silenzio tra generazioni, silenzio su avvenimenti che non si riesce più a tenere insieme. Un silenzio che è dunque metafora di un tempo che attraverso la proliferazione pensava di poter spiegare tutto, silenzio che è metafora dei nostri limiti e delle nostre rinunce. Dall’altra parte il silenzio è stato protagonista anche della mia vita mentre scrivevo il romanzo. Come molti giovani d’oggi, ho dovuto presto scoprire quanto fosse grande lo iato tra le aspettative adolescenziali e la vita concreta. Avevo preso la decisione di non continuare il mio dottorato e di abbandonare ogni velleità di ricerca e di lavorare. Scelta per me difficile e molto sofferta, scelta che in molti non capivano e non approvavano ed io ho preferito rispondere con il silenzio e la scrittura.

A.M.: Prova a descrivere “Domande al silenzio” con cinque aggettivi.

Marco Incardona: Magmatico. La densità di scrittura, l’eclettismo narrativo e la forte struttura, rendono il romanzo ed il suo stile complesso, magmatico appunto. Volevo rendere chiaro il contrasto tra il modo sicuro con cui il protagonista pensava la sua vita ed il modo magmatico in cui essa invece appariva se vista dall’esterno.

Sofferto. Ho lavorato anni per scrivere questo romanzo, mi sono speso sino all’ultima goccia, ho riversato tutto me stesso, tutto il mie pensiero si trova in esso. Ho spesso sofferto della coscienza dei miei limiti oggettivi rispetto all’immane compito che mi ero dato. Sofferto ma vissuto fino in fondo.

Caleidoscopico. Come in un caleidoscopio colori ed immagini si compongono e si decompongono per magia, trasportate su un piano spaziale immaginario e denso di significato. Io stesso mi sono stupito del mio eclettismo mentre scrivevo. Ma stupirsi è uno dei modi più belli per scoprirsi vivi.

Irriverente. Non ho guardato in faccia nessuno, ho provato ad affrontare con forza tutti i temi spinosi che volevo affrontare. Ho costruito i personaggi in modo accurato, in modo da consentirmi una batteria di fuoco completa e possente. Senza risultare demolitorio e disfattista, ho provato semplicemente a pensare le contraddizioni del nostro tempo, le sue aporie, le sue innumerevoli ed deplorevoli agiografie.

Sincero. Mi sono messo in gioco a 360 gradi, non mi sono mai sottratto alla contesa. La scrittura graffia e modifica, la scrittura apre spazi nuovi, mette in luce aspetti di noi stessi prima sconosciuti che non sempre si è disposti ad accettare. Ho dovuto affrontare abissi mentali e paure radicali per poter scrivere il romanzo. Solo questo mi ha dato la forza ed il coraggio di essere audace ed anche ambizioso. Audace perché sincero, ambizioso perché disposto alla caduta.

A.M.: In “Domande al silenzio” c’è un plurilinguismo particolare, ci racconti qualcosa in proposito?

Marco Incardona: Sono totalmente affascinato dalla differenza, dall’alterità. Le lingue restituiscono tutta l’ambiguità della possibilità del dialogo e dell’assoluta incomprensione. Le lingue sono una sfida che mette in crisi, perché mette in evidenza i nostri limiti, perché ci riduce, quando le conosciamo poco, allo stato di bambini alle prime armi. Nel romanzo ho voluto giocare con questo, da una parte perché sono affascinato dalle lingue che ho usato nel romanzo e dall’altro perché volevo mettere in luce tutte le mie pochezze. Perenne insoddisfazione di chi vorrebbe perseguire l’impossibile, di esprimersi con purezza in una lingua diversa da quella madre come faceva Conrad, come faceva Panait Istrati. Anche le lingue usate, ed avrei voluto conoscerne di più, entrano a far parte di diritto del magma esistenziale che ho provato a riprodurre. Penso sempre alle lingue che non conosco, alla mia pigrizia, a tutti i capolavori che non posso leggere, questa è davvero una mia ossessione. Alla fine non so risponderti con coerenza a questa domanda, mi è risultato alla fine tanto inconsapevole, quanto indispensabile.

A.M.: Ti sei mai cimentato in poesia?

Marco Incardona: Questa risposta è per me ancora più difficile. Potrei semplicemente dire che in realtà io mi sento un poeta, che ho cominciato con lo scrivere poesie, che ho letto forse più poeti che scrittori, ma rischierei di essere banale innanzitutto con me stesso. La poesia è una bussola del mio esistere che spesso è con me parca di affetto e che altre volte mi concede squarci di bellezza struggente. Imponderabile ed inarrestabile. Non riesco a non scrivere poesia e nessuna poesia mi appare mai definitiva come è invece accaduto con il romanzo. Difficile vivere a stretto contatto con la poesia per me e difficile farne a meno. Essere veramente poeti nella nostra società è un atto di ribellione talmente radicale da richiedere una forza d’animo ed una temerarietà di spirito che non sempre sono in grado di avere. Sarebbe molto bello, ma forse sono solo un piccolo essere umano che naviga a vista, anche se a parole mi illudo del contrario.

A.M.: Che rapporto hai con la lettura? Sei un lettore sporadico oppure famelico?

Marco Incardona: La lettura per me è tutto, il principio e spero la fine. Prima che scrittore io sono e rimango un avidissimo lettore, affascinato dalla miriade di scoperte intellettuali da poter fare durante la vita. Non potrei nemmeno pensare la mia vita senza un libro da leggere, una specie di perenne coperta linus. Ma ci tengo ad aggiungere una cosa: non può che essere così. Diffido abbastanza di coloro che, quasi fossero investiti da uno sciamanico dono verso la narrazione, si permettono il rischio di scrivere a profusione, senza aver meditato in profondità su altri scrittori. E non si creda che il mio sia solo un esercizio di snobbismo, perché si vive anche bene senza, lo ammetto. Solo che in me rimane il dubbio fondato che questa presunzione di base si esprima soprattutto verso gli altri, si traduca in un mancato ascolto degli altri, delle loro storie, delle loro paure recondite. Leggere è un modo affascinante di scoprire la vastità e la complessità dell’umano e del suo manifestarsi. Per questo compito altrettanto importante è quello di leggere bene, di scegliere bene e di non accettare mai di venire meno ai propri criteri. Leggere aiuta soprattutto a capire che sono proprio i nostri limiti temporali a rendere a volte necessaria una cernita, ma anche il suo contrario, la bellezza di leggere il primo libro che ti capita per le mani e scoprirlo essere un capolavoro inaspettato.

A.M.: Se potessi scegliere, in quale città troveresti maggiore ispirazione per scrivere?

Marco Incardona: L’esperienza me ne suggerisce una, Parigi. La risposta è scontata ma le motivazioni sono assolutamente esperite in prima persona. Parigi non è una città facile, spesso è graffiante, veloce, competitiva, perennemente distratta. Tutto appare possibile e tutto ti passa accanto indifferente, perché alla fine hai da fare mille cose ed il tempo tiranno lascia poche chances. Quasi che si trattasse di una perenne traversata nel deserto, l’enorme lascito culturale della città, come fosse un miraggio, ti conduce versa l’uscita, versa la risoluzione del dramma. Parigi è spesso una città aspra, tesa, stridente, ma anche una città che mette energia, che dà carica, che si strugge in attimi di inaspettata bellezza. Parigi è una città che quando meno te lo aspetti, ti prende per mano, ti fa sedere in uno dei suoi tanti bistrot e ti fa cominciare a scrivere. Potrebbe essere la mia risposta definitiva, ma forse no… ci sono altre città, ma certo Parigi è la città in cui ho vissuto che più mi ha ispirato, soprattutto quando non mi aspettavo più niente da lei.

A.M.: Oltre alla scrittura hai qualche altra passione?

Marco Incardona: A dire il vero mi piacciono solo cose che a ben vedere hanno stretto connessione con la mia scrittura. Adoro viaggiare, conoscere posti nuovi e fare lunghe passeggiate. Adoro la musica in tutte le sue manifestazioni, ma soprattutto la musica classica. Adoro il filosofo Adorno, ma so che anche questo ha molto a che vedere con la mia scrittura.

A.M.: Hai in programma qualche altra pubblicazione per il 2012? O delle presentazioni de “Domande al silenzio”?

Marco Incardona: Per ora voglio spendermi completamente nella promozione del romanzo che ho pubblicato. La sua complessità d’insieme ha bisogno di un tempo relativo per trovare quel corpus di lettori in grado di apprezzarlo e valorizzarlo. Per questo voglio spendermi nella sua promozione, anche perché credo nel valore complessivo di quello che ho scritto. Proverò dunque a fare molte presentazioni del romanzo, oltre a quelle che ho già fatto. Le presentazioni mi piacciono molto, permettono un contatto diretto con i potenziali lettori, e permettono di scoprire la voce e la portata dell’autore. Mi piace questo contatto umano, e mi riempie di gioia e di incredulità il sapere che delle persone vengono per ascoltare la presentazione del romanzo.

A.M.: Salutaci con una citazione…

Marco Incardona: Per ora ti do questo insegnamento, o pazzo, prima del congedo: “se non si può più amare, si deve passare oltre!”

Così parlò Zarathustra e passò oltre il pazzo e la grande città.

Friedrich Nietzsche

Info:

[email protected]

http://www.facebook.com/incardona.marco

Alessia Mocci

Responsabile dell’Ufficio Stampa di Marco Incardona

([email protected])

Fonte:

http://oubliettemagazine.com/2012/07/04/intervista-di-alessia-mocci-a-marco-incardona-ed-al-suo-domande-al-silenzio/

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