“Nel nome del padre”, violenza e memoria

Poche cose spaventano quanto un uomo non allineato. Il disprezzo si tramuta in violenza, quando si trova dinanzi un individuo tanto innamorato della verità da non pretendere mai di possederla, cercandola sulla propria pelle senza lasciarsi sedurre da comodi luoghi comuni. “Nel nome del padre”, lo spettacolo diretto e interpretato da Antonio Grimaldi presso la Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno ad apertura della rassegna La notte dei Barbuti, è un bruciante atto d’amore verso Pier Paolo Pasolini, interamente costruito sulla necessità di vincere la morte, non solo fisica, ma soprattutto spirituale : il prezzo che si paga quando si abdica alla propria libertà. La sabbia riversata sulla scena dagli interpreti fa emergere quasi per caso una camicia, un fodero per gli occhiali, un taccuino. È chiaro il duplice riferimento al litorale di Ostia, dove l’intellettuale trovò la morte, e al tentativo sistematico di nascondere, di seppellire la portata eclatante dell’evento. Quegli oggetti che riemergono esprimono subito l’ostinazione di un pensiero che non vuole lasciarsi soffocare e Grimaldi (che è immagine di Pasolini e al tempo stesso figlio amoroso che vuole protrarre la vita di un padre scomodo) si muove su quella distesa di sabbia con la felice innocenza di un bambino, quell’innocenza che affascinava lo scrittore e regista ed è simboleggiata dal bianco del suo vestito. Autilia Ranieri e Salvatore Giordano, con indosso abiti militari e le maschere di un coniglio e di un maiale (il potere che vede solo se stesso e può dunque fare a meno dell’umanità), uccidono mille volte l’uomo che ha osato avere un’etica e altrettante volte spetta alla madre (una dolente e intensa Annarita Vitolo) portare il lutto e rianimarlo poggiando sul suo viso un panno. L’audace visione cristologica di Pasolini ha una sua ragionevolezza, dato che l’artista sconta sulla sua pelle il peso di una società regredita a un egoismo che non fa sconti. Il sistema vanifica le scelte che ritiene pericolose mentre sembra avvallarle. Nel momento in cui la Ranieri fa leggere agli spettatori stralci di frasi tratte dalle opere pasoliniane, vuole sottolineare il fatto che siano solo parole, inutili suoni che non portano a nulla. Le parole dell’autore che invece echeggiano da un registratore hanno la concretezza di corpi dal candore impudico, che non devono essere dimenticati. Quando la madre, ormai trasfigurata nell’aspetto della Vergine, accoglie come una moderna Pietà su una sedia a rotelle il corpo del figlio, sembra che gli aguzzini abbiano vinto. Eppure la forza di quelle figure lentamente inghiottite dal buio fa pensare alla frase di Oscar Wilde “Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte. Non bisogna guardare che all’amore”.

Gemma Criscuoli

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